Tutti conoscono la sindrome di Down di origine genetica, eppure non sono molte le ricerche scientifiche dedicate a questa condizione. È il paradosso che un’associazione di Mandello del Lario (Lecco) ha deciso di affrontare.
“Vola con Martin oltre il 21”, questo il nome della Onlus, ha scelto di sostenere come prima ricerca scientifica “Genoma 21”, un progetto innovativo guidato dal professor Pierluigi Strippoli e della dottoressa Lorenza Vitale dell’Università di Bologna.
In questa intervista, il professor Strippoli ci spiega gli obiettivi del percorso ispirato alle ricerche di Jérôme Lejeune, il genetista francese al quale si deve la dimostrazione che la SD è dovuta alla presenza di una terza copia nella coppia del cromosoma 21 invece delle normali due (da allora è chiamata anche Trisomia 21): l’approccio innovativo è quello di una integrazione di dati clinici, biochimici, genetici e bioinformatici per identificare nuove possibilità di cura per la disabilità intellettiva associata a questa forma di trisomia.
Professore associato di Biologia applicata all’Alma Mater di Bologna, dove insegna Genetica ed è alla guida del Laboratorio di Genomica del Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale (DIMES), Strippoli ha applicato l’uso di tecniche di genetica molecolare e di genomica allo studio delle malattie del sangue, del cancro del colon-retto e appunto della trisomia 21. Ha ideato e realizzato alcuni strumenti originali di biologia computazionale per l’analisi del genoma umano e pubblicato sessanta articoli su riviste scientifiche internazionali.
Professore, può ricapitolare anzitutto quali sono i sintomi della sindrome di Down?
“Al di là di alcune caratteristiche fisiche, questa sindrome presenta come costante una disabilità intellettiva, mentre si riscontrano in modo variabile cardiopatia (nel 30-40% dei casi), ipotiroidismo, infezioni, malattie auto immuni: disturbi tutti comunque affrontabili. Quanto al deficit intellettivo si tratta di un disturbo molto specifico, che interessa alcune sfere dell’intelligenza e non altre: risulta colpito linguaggio, che si sviluppa ma a volte più lentamente e con qualche difficoltà; c’è poi una difficoltà di espressione che durante la crescita può essere fonte di disagio, il bambino cioè capisce molto di più di quello che riesce ad esprimere; e ancora, si presenta un disturbo del pensiero simbolico o astratto. Altre sfere però sono assolutamente conservate, come quella della memoria a lungo termine, addirittura socializzazione e affezione sono molto sviluppate: è nota la capacità dei bambini Down di suscitare intorno a sé un clima di affetto più marcato del comune.
Insomma questa disabilità intellettiva va inserita in un certo contesto, addirittura dà alcuni punti di forza a bambini e molti genitori ci dicono che ‘sono meravigliosi così come sono’. Ma è anche vero che c’è un limite oggettivo alle loro capacità e alla loro autonomia, limite dato da una specifica alterazione del DNA e da specifiche azioni dei geni che se meglio conosciute potrebbero essere contrastate a livello genico come già in altre terapie”.
Come è nato il suo interesse per questa sindrome?
“Dopo gli studi di genetica molecolare delle malattie del sangue, quando ero ricercatore è stata la professoressa Maria Zannotti - allieva del professor Lejeune, ha portato il tema della ricerca sulla Trisomia 21 a Bologna - a spingermi in questa direzione. E dire che all’inizio non avrei voluto occuparmene, credevo fosse un campo di ricerca già ‘sovraffollato’, visto che la sindrome di Down rappresenta in assoluto l’alterazione genetica più frequente. Invece ho scoperto presto che gli studi scarseggiavano. Così per alcuni anni abbiamo lavorato sull’individuazione dei geni coinvolti nella Trisomia 21 ed è stata ad esempio la mia collega, Lorenza Vitale, a identificare uno dei 250 geni interessati.
C’è insomma un grande lavoro di ricerca genetica di base ancora da fare a livello di cromosoma. Nel 2011, dopo una fase di difficile anche per la scarsità di fondi, a un convegno ho conosciuto la storia di Lejeune, la sua famiglia, ho riscoperto il suo lavoro scientifico e la nostra ricerca è rinata, ma con una visione molto più ampia della sindrome di Down. Su suggerimento della moglie di Lejeune sono tornato in clinica come osservatore, e grazie alla collaborazione con il professor Guido Cocchi e con la dottoressa Chiara Locatelli di Bologna è nata idea di portare avanti insieme un grande progetto clinico sperimentale, che partendo dall’osservazione dei bambini e dall’analisi del sangue portasse a una maggiore comprensione dei meccanismi della sindrome. La nostra ricerca si è fatta insomma più mirata a una cura per la disabilità intellettuale, che rimane il principale problema dei bambini e degli adulti con sindrome di Down”.
Quali obiettivi specifici si pone il progetto Genoma 21?
“Negli ultimi tre anni abbiamo ottenuto risultati che riteniamo significativi, seguendo una strada particolare indicata sempre da Lejeune. E cioè l’ipotesi che la sindrome di Down sia dovuta prevalentemente a un problema metabolico: il cromosoma in più porterebbe a un’intossicazione permanente dei neuroni che ne provoca il rallentamento. Altro punto ripreso da Lejeune: a essere responsabile della sindrome sarebbe solo una porzione del terzo cromosoma 21. Tre anni fa abbiamo pubblicato uno studio mostrando che esiste in effetti un piccola ‘regione’ di tale cromosoma sempre associata alla sindrome di Down, e che se questa regione - una sequenza presente solo nell’uomo e nello scimpanzè - risulta assente, si può anche possedere un terzo cromosoma 21 ma non avere la sindrome di Down”.
"Abbiamo individuato una ‘regione’ del terzo cromosoma 21 correlata alla sindrome e con un’analisi di metabolomica abbiamo dimostrato come il metabolismo dei bambini con sindrome di Down sia alterato. Ora dobbiamo chiudere il cerchio, collegando tale regione ‘critica’ e le precise alterazioni metaboliche scoperte".
I prossimi traguardi?
“L’identificazione di alcuni geni di questa ‘regione’ del terzo cromosoma 21 sarà oggetto di una prossima pubblicazione per cui non posso entrare nei dettagli, ma posso dire che solo da pochi mesi le mappe automatizzate hanno recepito dei segnali di attivazione genica da questa regione del cromosoma. C’è poi un altro fronte aperto. Un anno fa abbiamo pubblicato i risultati di analisi di metabolomica che hanno dimostrato come il metabolismo dei bambini con sindrome di Down sia alterato: ci sono tutta una serie di sostanze rilevate con concentrazioni anomale, e in modo proporzionale al modello previsto dai genetisti quando c’è un cromosoma in più. Ora allora dobbiamo chiudere il cerchio, collegando la ‘regione’ del cromosoma di cui sopra e le precise alterazioni metaboliche individuate: se noi capissimo qual è quella più critica, ovvero quale disturba di più il cervello, potremmo prospettare una terapia mirata a correggere lo squilibrio metabolico.
Per arrivare a questo vorremmo anche rimuovere con l’ingegneria genetica la ‘regione’ critica del cromosoma da cellule in provetta, non per applicare tale terapia a un paziente ma per capire con una dimostrazione effettiva come questo modificherebbe il metabolismo. Tutto questo il nostro team, piccolo e composto anche da persone non strutturate, è riuscito a farlo grazie a una serie di collaborazioni preziose, anche internazionali: quella con il professor Marzo Seri responsabile della Genetica Medica dell’ospedale S. Orsola di Bologna, con la professoressa Paola Turano dell’Università di Firenze con la quale collaboriamo sulla metabolomica, con il professor Patrick Harrison dell’Università di Cork, in Irlanda, per quel che riguarda la parte di ingegneria genetica con tecnica Crispr.
Collaboriamo poi con i professori Silvia Lanfranchi e Renzo Vianello dell’Università di Padova sui loro studi dettagliati su persone con sindrome di Down: questo ci permetterà di correlare eventuali precisi squilibri metabolici con specifiche funzioni cognitive, e attualmente si tratta dello studio più sistematico condotto in Italia sulla sindrome di Down”.
Dal giugno 2018 il vostro progetto è sostenuto dall’associazione lombarda “Vola con Martin oltre il 21”…
“Li conosco da poco più di un anno, siamo pochissimi in Italia a fare ricerca sulla Trisomia 21 in modo prioritario e sono rimasti favorevolmente impressionati dal nostro approccio. Quando poi hanno scoperto che il 90% nostri fondi arrivano da privati, in grandissima parte da singoli, hanno voluto essere coinvolti e di questo vogliamo ringraziarli. Hanno deciso di sostenerci in modo prioritario, in particolare per l’acquisto di un microscopio a fluorescenza per eseguire gli esperimenti con le cellule di cui dicevo”.
Come mai scarseggiano i fondi pubblici per la ricerca sulla sindrome di origine genetica a oggi più diffusa?
“Nella mentalità attuale che regola i finanziamenti alla ricerca è prevalsa l’idea di investimenti che vadano a colpo sicuro, con la tendenza sempre maggiore a chiedere una enorme quantità di dati preliminari a sostegno delle ipotesi che si vogliono dimostrare. Così però si arriva a finanziare la ricerca quando non è più davvero innovativa. La ricerca è per definizione ad alto rischio, in caso contrario non sarebbe veramente tale e dovremmo piuttosto parlare di lavori ‘di conferma’ di ipotesi già vagliate.
C’è poi un altro elemento da considerare. Di fronte a un dato di fatto - a oggi la maggioranza delle donne che si sottopone a diagnosi prenatale e che riceve una diagnosi di Trisomia 21 sceglie di non portare avanti la gravidanza -, c’è la percezione di un futuro progressivo calo del numero delle persone con sindrome di Down. Io oppongo un altro dato di fatto, e cioè che nel mondo queste sono comunque sei milioni. Inoltre, sempre i dati ci dicono che non c’è una diminuzione rilevante delle nascite con Trisomia 21, anche per l’aumento costante dell’età delle donne al parto, il fattore che più incide sulle probabilità che il nuovo nato presenti la sindrome di Down”.