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Storie di innovazione
Investire in capitali di rischio e start up innovative è strategico per il Paese.
di Redazione Open Innovation | 07/08/2017
«Quella di Regione Lombardia è un’iniziativa importante e tanto più significativa, perché potrebbe fare da apripista per altre regioni».
Andrea Di Camillo, 46 anni, è un pioniere dei capitali di rischio in Italia - ha investito in oltre 40 società tra cui Yoox e Venere, poi cresciute in modo esponenziale -, oltre che imprenditore nel settore digitale come cofondatore di Vitaminic e Banzai. Dal 2013 è managing partner di P101, tra i principali operatori di venture capital. Di Camillo spiega perché finanziare start up innovative è fondamentale per lo sviluppo di un paese. Soprattutto attraverso il sostegno a investitori professionali. E proprio questa è la strada intrapresa da Regione Lombardia, che per pmi e start up innovative ha messo sul piatto 15 milioni di euro.
Il primo agosto la giunta regionale lombarda ha infatti aderito alla macro piattaforma delle regioni alpine (Alpgip), su proposta dell’assessore a Università Ricerca e Open Innovation Luca Del Gobbo. La piattaforma investirà 70 milioni: 40 erogati dalle sei regioni (Lombardia Piemonte, Liguria, Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia), 30 conferiti dal Fondo europeo per gli investimenti. Lo strumento ipotizzato è quello del Fondo dei fondi: il finanziamento pubblico andrà cioè a fondi di venture capital, specializzati nell’individuare progetti di impresa dalle grandi potenzialità di sviluppo.
Di Camillo, che numeri sposta oggi in Italia il settore dei capitali di rischio, che negli Usa ha fatto da volano a imprese poi divenute marchi globali?
«Le cifre sono decisamente diverse da quelli americane, ma anche da quelle francesi rispetto alle quali il rapporto è di dieci a uno a loro vantaggio. L’Aifi, associazione del settore, ne dà una fotografia parziale perché si basa sugli investimenti dei propri associati che coprono il 50-60% del totale: ma che si tratti di 200 piuttosto che di 300 milioni mossi in un anno, il senso non cambia. Siamo sicuramente molto indietro. Il fatto che il mercato italiano sia piccolo ha dei pro e dei contro. Tra questi ultimi, ovviamente, il fatto che ci siamo “persi” una decina d’anni di sviluppo di nuove imprese, in un periodo di grande discontinuità tecnologica, mentre negli Usa colossi come Google e Facebook sono arrivati a spostare il baricentro dell’economia. In Italia invece abbiamo cominciato a investire in modo importante sull’innovazione, ma poi ci siamo fermati per quindici anni, dopo l’esplosione della bolla della internet economy. Gli Usa non solo non si sono fermati, ma hanno fatto crescere ancora di più il volume degli investimenti, tanto che oggi parliamo di decine di miliardi. D’altra parte, c’è anche un lato positivo: da noi ci sono ampi margini di crescita e non c’è nessun motivo per cui l’Italia non possa generare aziende fortemente innovative, in grado magari di diventare leader a livello globale in determinati settori».
Che effetto può avere la scelta di Regione Lombardia di sostenere i capitali di rischio, ovvero chi da tempo lavora con realtà ad alto tasso di innovazione?
«L’iniziativa della Lombardia - che si è mossa da capofila nei confronti delle altre regioni della piattaforma – è davvero oro, o meglio acqua nel deserto, che si tratti di una goccia o di un barile risulta fondamentale. Per due motivi: perché avrà un impatto immediato in un settore che ha grande necessità di capitali; e perché la sua azione farà da cassa di risonanza al nodo degli investimenti per start up e realtà innovative, dunque da stimolo per altre regioni o enti pubblici a seguire il suo esempio. Peraltro, 70 milioni sono una cifra non indifferente, considerando il quadro italiano dei venture capital. È insomma un’iniziativa molto importante, con lo strumento del Fondo dei fondi Regione Lombardia fa poi un’operazione intelligente: non distribuisce denaro in modo discrezionale ma aiuta operatori professionali già esperti nel settore ad avere più risorse, e dunque a offrire maggiori opportunità alle imprese. È il modello ideale per un’amministrazione locale. L’altro strumento a cui ci si dovrebbe affidare è poi quello della de fiscalizzazione degli investimenti in realtà innovative, da parte dello Stato. Ma questa è un’altra storia».
Quali rimangono gli ostacoli principali da affrontare?
«Anzitutto, il settore degli investimenti con capitali di rischio è poco conosciuto e non viene ben raccontato. Come P101 abbiamo provato a tracciarne un ritratto, con un primo report sul periodo 2000-2017 (https://www.p101.it/wp-content/uploads/2017/07/Venture-Capital-2000-oggi.pdf), che ora vorremmo aggiornare ogni sei mesi. Per inciso: P101 è stato il primo personal computer venduto su larga scala nel mondo, lo ha realizzato la Olivetti: eppure nessuno oggi sa di questa eccellenza italiana e questo non deve più succedere, abbiamo voluto ispirarci a quel prodotto anche per lanciare un segnale, una provocazione. C’è poi una difficoltà culturale: occorre una propensione al rischio che in Italia scarseggia. E dunque: informazione e cultura, attori istituzionali e imprenditori coscienti del problema, maggiori capitali pubblici e privati sono gli unici elementi che mancano all’Italia per investire sull’innovazione al livello di tutte le altre economie occidentali».
Al di là delle cifre, qual è secondo lei il valore aggiunto di questo segmento dell’economia per l’Italia?
«Direi che ha un valore strutturale: alcuni settori della nostra economia sono in discussione, al punto tale che non evolveranno ma verranno distrutti e ricostruiti, e questa ricostruzione passa da questo tipo di investimenti. Faccio un esempio: la grande crisi dell’editoria italiana non esiste, quello che è in crisi è un modello imprenditoriale che non si è innovato, tanto che Google e Facebook guadagnano sui contenuti prodotti dagli editori. O ancora: oggi Booking intercetta il 15% di tutte le prenotazioni di camere di albergo, per quanto ancora possiamo permetterci di non avere aziende italiane leader internazionali in un settore per noi vitale come quello del turismo?»
In definitiva, quali sono i trend più interessanti su cui investire nel prossimo futuro?
«C’è un mondo non immediatamente visibile, quello dei processi di produzione delle aziende, che oggi con la digitalizzazione non possono più essere quelli di una volta: qui ci sono ancora margini di crescita dell’innovazione. Così come nel turismo, paradossalmente ancora poco “digitale”. E ancora, il FinTech (la fornitura di prodotti finanziari grazie a tecnologie informatiche avanzate, ndr): tra dieci anni la banca come la conosciamo oggi non esisterà più, è un settore in cui tutto deve cambiare».
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