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    La digital transformation e l’impatto sulle Risorse Umane: una questione aperta

    di Luigi Rosati

Alcuni anni fa, agli albori della cosiddetta quarta rivoluzione industriale, alcuni studiosi ed esperti hanno indossato le vesti di Cassandra per mettere in guardia i lavoratori sul pericolo della digitalizzazione diffusa: le nuove tecnologie avrebbero spazzato via milioni di posti di lavoro! Ma, come per la vestale troiana, l’impatto sull'opinione pubblica è stato limitato; i nuovi scenari apparivano complicati ed allarmistici, meglio pensare a quanto accaduto con l'informatizzazione di massa negli anni ‘80 in cui a fronte della perdita di una certa fetta di posti di lavoro ne nacquero, per innovazione e trasformazione, molti altri, forse di più.

Ma il modello di diffusione e cambiamento della digital transformation segue curve di crescita esponenziali e sono bastati pochi mesi a dimostrare, anche al grande pubblico, lo scenario che si stava profilando. In poco tempo innovazioni come robot (autonomi e attivi, non più i bracci meccanici della fabbrica informatizzata di qualche decennio fa), intelligenza artificiale, super computer in grado di apprendere e prendere decisioni, sistemi informativi integrati, sensori in grado di coprire ogni attività e condizione ambientale, sono divenuti realtà concreta e tangibile. E anche gli effetti di tutto ciò sono passati dall’essere semplici innovazioni per il nostro intrattenimento, a realtà nel quotidiano lavorativo: così la stessa tecnologia dell’assistente vocale dello smartphone ha soppiantato il servizio clienti e invece di chiamare l’help desk rivolgiamo i nostri quesiti al “bot” dal nostro pc; il touchscreen lo usiamo per ordinare al fast food, al posto del solito ragazzo con cappellino e auricolare; i sensori che usavamo per la console dei videogame ora controllano i clienti nei negozi… Ed anche la questione dell’impatto sul mondo del lavoro ha avuto una sua accelerazione; probabilmente uno dei momenti di maggiore visibilità c’è stato durante l’ultima campagna elettorale per le presidenziali USA in cui gli schieramenti sul campo si sono confrontati anche sul tema perdita di lavoro da digitalizzazione.

Nel dibattito sul tema, sicuramente il contributo più diffuso è stato quello di Bill Gates che ha proposto qualche mese fa: “se un lavoratore umano guadagna 50mila dollari lavorando in una fabbrica, il suo reddito è tassato. Se un robot svolge il suo stesso lavoro dovrebbe essere tassato al suo stesso livello”. Non si tratta di una provocazione o una boutade: sempre più spesso si discute e propone un modello di tassazione del business digitale al fine di garantire reddito alla più ampia fascia di popolazione e, così, di garantire capacità di acquisto dei servizi e prodotti realizzati dallo stesso digital business (tra i contributi e le voci a favore si annota quella, non trascurabile. di Elon Musk).

In un contributo riassuntivo, Roberto Masiero, oltre ai pareri già citati, sottolinea una lettura del problema basata su due elementi principali: l’employability, da un lato, e il modello di welfare, dall’altro. Rispetto al primo concetto, infatti, si deve analizzare il problema della possibile - o meno - riconversione dei lavoratori che, nel caso di quelli espulsi, è rappresentata dalla possibilità di acquisire le nuove competenze richieste. Nel caso di una risposta negativa, si dovrebbero orientare i lavoratori a posizioni a maggiore occupabilità e minore (ri-)qualificazione; questi lavori ricadono principalmente nei servizi alla persona, l’unica area che sembra mantenere questi due indici anche alla luce della digital transformation. Tale osservazione, va aggiunto, è valida anche per i lavoratori giovani che non posseggono una formazione adeguata o che si orientano ad ambiti professionali in pericolo. Per altro quest’ultima definizione rischia di emarginare dal lavoro proprio i gruppi più deboli: parliamo di ragazzi e giovani che si orientano verso professioni a bassa qualificazione e che interrompono gli studi, spesso presso agenzie formative deboli e inefficaci. Purtroppo la digitalizzazione colpisce di più propri gli ambiti professionali che tradizionalmente hanno dato lavoro alle fasce più deboli; parliamo di lavori ripetitivi e standardizzati più facilmente - ed efficacemente - sostituiti da robot o soluzioni digitali.

Da qui l’esigenza di tornare a politiche di welfare in grado di supportare le persone escluse dal mercato del lavoro, come pure - va aggiunto - di investire in servizi e settori in grado di valorizzare la componente human e, così, garantire occupazione (anche con bassa qualificazione). Tali settori sono i già citati servizi alle persone - specie in ambito sanitario - come pure le attività commerciali e di marketing o i servizi nel turismo e horeca.

Ovviamente l’altra faccia della medaglia è rappresentata dal mercato delle professioni qualificate, aperte alle nuove risorse e ricchezze prodotte dal digitale. In questo caso abbiamo un mercato a disposizione, aperto a nuove figure e qualifiche in cui - va sottolineato - saranno vincenti le competenze trasversali più di quelle tecnico-professionali, essendo queste ultime esposte ad una obsolescenza molto più rapida che in passato.

Da questo punto di vista l’imprenditorialità e la managerialità mantengono una loro potenzialità, in termini di potenziale occupazionale; per altro rappresentano una soluzione efficace per i lavoratori maturi. Proprio questa potenzialità rappresenta una tendenza che potrebbe suggerire un modello antitetico a quello prospettato: maggiore capacità di occupare posti di lavoro qualificati e ben retribuiti da parte dei lavoratori maturi versus occupazione giovanile sempre incerta, sotto impiegata e retribuita.

Di fronte a questi scenari certamente rimane importante osservare e intervenire sui lavoratori maturi - over 40/50 ma ben presto anche 60, viste le recenti politiche pensionistiche - con modelli e strategie dedicate, secondo un percorso avviato nella prima decade del secolo. Il progetto KEEP50+, realizzato nell’ambito del programma Erasmus+ della Commissione europea, intende approfondire il tema concentrando la propria attenzione sui modelli di formazione all’imprenditorialità, proprio dedicati agli over 50. Si tratta di una collaborazione tra dieci Paesi europei, finalizzata a uno scambio di informazioni, esperienze e prassi sulla base delle quali redigere delle linee guida comuni. L’indagine avviata a livello nazionale intende approfondire il tema dei fabbisogni formativi per l’imprenditorialità ponendo la questione in relazione alle percezioni del contesto, delle minacce e delle dinamiche del mercato del lavoro, alla luce della digital transformation.

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Riferimenti e fonti:

Bill Gates, citato da Luca Tremolada, La strana idea di tassare i Robot, Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2017

Elon Musk, citato da Catherine Clifford, Elon Musk says robots will push us to a universal basic income—here’s how it would work, CNBC Make It, 18 novembre 2016

Roberto Masiero, TASSARE I ROBOT PER FINANZIARE IL WELFARE? Discutiamo della “modesta proposta” di Bill Gates, The Innovation Group,

Masiero cita Carlo Alberto Carnevale Maffè, Proposta Gates, idiozia economica, CorCom, 21 febbraio 2017

European Commission, Joint Research Centre - Institute for Prospective Technological Studies, Entrepreneurship Competence: An Overview of Existing Concepts, Policies and Initiatives, 2015

Il progetto. Laureati scientifici e mercato del lavoro, Avvenire, 22 novembre 2016

Per maggiori informazioni sul progetto si veda www.keep50.eu oppure su facebook: www.facebook.com/Keep50 

Il progetto è presente anche qui, sulla piattaforma Open Innovation di Regione Lombardia, con la proposta di collaborazione “Indagine su imprenditorialità e lavoratori over 50 - Progetto Erasmus KEEP50+” centrata proprio sulla ricerca citata

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1 contributo

Franco Cavalleri

24/05/2017 alle 20:15

Secondo me, occorre cambiare visione e spostarsi da un punto di vista da Welfare ad uno di nuove forme di reddito. 
Welfare significa assistenza, mancanta di indipendenza, impossibilità da parte dei cittadini e delle famiglie di fare pianificazione sui loro redditi, perché questi dipendono - in parte piu' o meno grande, magari per la loro interezza - dalla volontà politica di dare forme e sostanza al welfare. Si rischia - ma è qualcosa che va ben oltre il semplice "rischio", è praticamente una certezza  di ritrovarsi come ai tempi dell'Antica Roma, ai panem et circenses, quando milioni di cittadini romani erano di fatto senza forme di reddito e dovevano basarsi sulle periodiche assegnazioni di pane e viveri vari da parte dell'imperatore, del potente di turno. 
Passare a nuove forme di reddito è possibile? Si, certo. Le famiglie hanno già in mano opportunità che possono tradursi in reddito. Le loro case, per esempio. Possono diventare punti di produzione di energia, da una parte, o fornire reddito attraverso l'affitto temporaneo. Nel primo caso, oltre ad azzerare, o comunque limitare fortemente, le spese per l'energia, gli impianti solari, fotovoltaici, eolici o altro che si possono installare sulle costruzioni possono anche produrre energia da vendere sul mercato cittadino, privato ma anche pubblico.
Naturalmente, tutto questo prevede di eliminare qualunque forma di tassazione sulle case e sui redditi che queste possono, in qualunqe modo, assicurare alle famiglie.
Altro punto, in questa visione dinuove forme di reddito, potrebbe essere la riforma della raccolta rifiuti. Oggi le famiglie pagano per la raccolta di rifiuti sulla cui produzione hanno ben poca influenza: cosa possono fare, le famiglie, sul packaging con cui i prodotti che comperano vengono messi in commercio? Le aziende realizzano packaging pensando piu' ai loro interessi, ai costi e benefici della filiera di produzione e trasporto, che alle effettive necessità anche ambientali. Tanto poi il conto dell'eccesso di ackaging lo pagano le famiglie! Quindi, se i rifiuti sono delle famiglie, allora dovrebbero essere in grado di farne quello che vogliono, venderli sul mercato: vuoi il mio cartone, la mia plastica, il mio vetro? Mi paghi!
Altra forma di reddito: i dati personali. Nell'era dei Data e dell'Intelligenza Artificale, le informazioni personali sono del tutto impersonali, la privacy non esiste. Molte aziende fanno business e soldi, tanti soldi, sfruttando le informazioni personali che le persone sono costrette a lasciare in giro, se vogliono avvalersi di servizi ai quali è impossibile rinunciare. Ma i dati personali sono, per l'appunto, personali! E allora, anche qui: vuoi i miei dati? Mi paghi! 

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