Giornalista scientifico, attivista civile, esperto di Open Data. Guido Romeo porterà queste e altre esperienze nel nuovo Foro regionale lombardo per l’Innovazione e la ricerca. Americano di nascita, da anni residente in Italia, Romeo ha fondato l’associazione Diritto di sapere ed è stato tra i primi promotori dell’introduzione in Italia del FOIA, Freedom of Information Act. È science editor in chief di un progetto europeo (REIsearch) per la creazione di una piattaforma di dialogo tra istituzioni, ricercatori e cittadini sugli impatti sociali delle tecnologie emergenti e coordina AI4People, il primo forum europeo di etica dell’intelligenza artificiale. Il dialogo sui temi tecnologici è tutto da riannodare, spiega, grazie anche a strumenti come il Foro lombardo. Mentre sul fronte della legislazione avverte: ai giganti del web occorre fornire un quadro etico e giuridico che anticipi le loro mosse e dia certezze.
Romeo, dal giornalismo ai progetti europei: ci racconta anzitutto il suo percorso?
“Ho un background come giornalista sia economico, sia su temi di scienza, tecnologia e innovazione: questo mi ha portato ad avere un po’ il piede in due staffe, quelle del reporter e quelle del divulgatore scientifico. Il primo grosso progetto di questo tipo l’ho coordinato nel 2000 per la Commissione Europea sulla settimana europea della scienza: il tema del ‘Genetics Open Day’ era un confronto con i cittadini sulle grandi prospettive aperte dalla genomica, in un momento in cui Craig Venter aveva appena completato il primo sequenziamento del genoma umano.
Dopo aver lavorato all’interno di testate come Il Sole 24 Ore e Wired, sempre seguendo le mie due passioni, negli ultimi anni mi sono molto impegnato sul fronte civico con l’associazione Diritto di Sapere (per la difesa e l’espansione del diritto di accesso all’informazione, ndr), che ho presieduto fino a maggio 2017 e da cui è nato il movimento FOIA (Freedom for Information Act) for Italy, che lo stesso legislatore ha riconosciuto come catalizzatore di una svolta. Uso volutamente il termine inglese perché questo posiziona subito il FOIA in un contesto internazionale, la nostra infatti non è stata solo una via italiana alla trasparenza: ora abbiamo una legge che pur non essendo avanzata come quella americana, da cui prende spunto, ha lo stesso quadro di riferimento giuridico e filosofico, per questo quindi è importante indicarla con quel nome. L’approdo di quel movimento è stato infatti nel 2016 la riforma e l’ampliamento del decreto legislativo 33 del 2013, e l’introduzione della prima vera legge sulla trasparenza in Italia, conosciuta anche all’estero come FOIA italiano. Abbiamo insistito sulla trasparenza, perché questa è la prima condizione per qualsiasi idea di governo aperto e partecipato, o collaborativo come si dice ora. Questo impegno mi ha portato a essere coinvolto nei movimenti per l’open government, sia a livello internazionale con Open Government Partnership sia a livello italiano con l’Open Goverment Forum, istituito nel 2016. A Bruxells sono anche responsabile per ATOMIUM – European Institute for Science, Media and Democracy del programma AI4PEOPLE, progetto di ricerca sull’etica e sull’impatto sociale dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie connesse all’AI: un’indagine che spazia dalla ristrutturazione degli ambienti lavorativi – con la perdita di posti, il rischio di demansionamenti – all’impatto sui nostri diritti civili quando le decisioni su temi come salute e accesso a servizi vengono affidate a un algoritmo”.
Da questo osservatorio a livello europeo, che novità segnala sul fronte dell’innovazione?
“Negli ultimi sei-sette anni si sono appunto molto sviluppate le iniziative di open government e credo che in Europa il tempo sia maturo per questo tipo di azioni, gli esempi non mancano e sono anche migliori di quelli che ci arrivano dal mondo anglosassone. L’Estonia ad esempio ha iniziato a puntare su forme di governo aperte e partecipate già nel 2000, quando ancora nemmeno c’era la definizione di open government. Non a caso oggi da questo punto di vista è sicuramente il Paese più avanzato a livello mondiale, certo la sua è un’esperienza non riproducibile ovunque: quella di un Paese che uscito dal ferreo controllo sovietico ha sperimentato per reazione una fortissima richiesta di apertura.Il dato per noi interessante è che l’Estonia ha una popolazione inferiore a quella della Lombardia: ci fa capire che lavorare su quei numeri, intorno ai 10 milioni di persone, può essere molto produttivo. Anche per questo, l’esperienza che si va a iniziare in Lombardia con il Foro regionale per l’Innovazione è molto interessante, del resto le Regioni in Italia si trovano ad avere un potere effettivo in ambiti di primaria importanza, dalla sanità alle infrastrutture. Un sistema completamente diverso è quello della Francia, che procede con grandi piani nazionali. Di recente ho parlato con il loro segretario di Stato per il digitale: ha 33 anni, riferisce direttamente al presidente Macron e sta portando un piano di digitalizzazione della pubblica amministrazione concepito come la grande infrastruttura immateriale della Francia del XXI secolo. Il loro obiettivo dichiarato? Diventare campioni del digitale, tenendo però fermi valori tipicamente francesi: ad esempio rimanendo inclusivi, ovvero riuscendo a far accedere al digitale anche chi oggi ne è escluso. La Francia parte insomma da un’idea di società, e non da quella di un’applicazione tecnologica da trasferire semplicemente nella società”.
Ecco: le istituzioni che ruolo giocano e possono giocare ?
“Il 25 maggio entrerà in vigore il GDPR, il regolamento europeo sulla privacy dei dati. È già un primo passo, che fa dell’Europa un’area con una propria impostazione sul tema: i dati appartengono ai cittadini e quindi se un’azienda californiana o dell’Oregon li raccoglie, questi rimangono comunque di proprietà dei cittadini stessi. È uno sviluppo al quale i giganti del web sono attentissimi: si è visto di recente sia con Microsoft sia con Google, colpita l’anno scorso dalla multa record di 2,42 miliardi per abuso di posizione dominante. Una nuova legislazione può obbligare i colossi dell’informatica e della tecnologia a cambiare strada. E questo rappresenta un punto di forza per l’Europa, ma potenzialmente anche un punto critico, perché può allontanare le grandi imprese internazionali dal suo territorio. Si tratta di un nodo a cui dobbiamo lavorare: le posizioni dei giganti dell’informatica e della rete vanno certamente regolate ma con intelligenza, in modo da non limitare la competitività europeae da dare delle certezze a queste aziende, che portano anche business e innovazione. Tenerle lontane non aiuta. Ricordo a questo proposito il caso del servizio di Google Street View, fortemente limitato in Germania perché troppe persone hanno chiesto alla società di Mountain View di rimuovere l’immagine della propria abitazione per motivi di privacy. Ogni opzione è legittima, ma è bene essere consapevoli del fatto che quando cominci a imporre certe limitazioni le tue aziende rimangono indietro e il sistema Paese risulta meno competitivo. Occorre allora compiere delle scelte: regole e indicazioni precise fanno bene sia ai cittadini, sia alle aziende, che sapendo esattamente cosa possono o non possono fare eviteranno strategie aggressive come quella adottata da Uber, strategia che peraltro ha dimostrato di non funzionare più. Un altro caso è quello recentissimo di Facebook, dove sta emergendo una sottovalutazione della sicurezza dei dati degli utenti. È ancora difficile capire quale sia il danno provocato dall’abuso dei dati degli utenti, ma solo il sospetto che possano essere stati usati illecitamente per condizionare il voto alle presidenziali Usa e sulla Brexit rischia di creare un danno enorme alla fiducia dei cittadini in tutti i sistemi digitali”.
Insomma le regole devono tenere insieme esigenze di innovazione e tutela dei cittadini?
“Non si tratta solo di regole, visto che queste in genere subentrano ex-post rispetto alle innovazioni, storicamente è sempre stato così. È importante fornire un quadro etico, filosofico e giuridico definito, da cui risulti chiaro dove e come verrà sviluppata la nuova regolamentazione. In questo modo, chi fa business potrà muoversi senza rischiare di entrare in conflitto con una legislazione che inevitabilmente arriverà a compimento anni dopo le novità che vuole normare. Per tornare all’esempio di Uber, l’app ha rivoluzionato il mercato della mobilità molto prima che la politica capisse come comportarsi e questo ha creato la frattura sociale che abbiamo visto, con i tassisti in rivolta perché non si sentivano tutelati e altri cittadini che invece volevano poter usufruire di un nuovo servizio”.
Ci sono già esempi di una simile riflessione sulle conseguenze a lungo termine delle scelte di innovazione tecnologica? Il Foro lombardo può rientrare tra questi?
“Credo che ogni comunità debba attivare gli organismi più adatti a definire il quadro complessivo, filosofico e giuridico, di cui dicevo e il Foro lombardo, con il suo sistema consultivo, sicuramente potrà essere uno di questi. Tra le realtà attive cito ancora l’Estonia, dove c’è un Comitato parlamentare per elaborare strategie per il futuro ben oltre il limite di ciascuna legislatura. Un altro possibile modello di lavoro è quello di ATOMIUM, che si propone come think tank terzo rispetto a Commissione e Parlamento Ue. Anche Macron si sta muovendo in questa direzione. Quanto all’Italia, non possiamo limitarci a iniziative pure lodevolissime come quella dell’Agenzia per l’Italia Digitale e del suo piano per digitalizzare la Pubblica Amministrazione - piano che tra l’altro implica anche un ripensamento dei processi interni e dunque l’apertura di grandi spazi di collaborazione con i cittadini: se si decide che l’amministrazione è una casa di vetro, questo significa che deve essere aperta ai contributi della cittadinanza e a possibili miglioramenti. Lasciando dunque da parte l’AGID, direi che purtroppo in Italia l’esigenza di un confronto ampio non è messa a fuoco. Ci sono isole felici, dove questo avviene, la nascita del Foro lombardo va in questa direzione, dunque i segnali non mancano. Ma oggi registriamo una carenza italiana su questo punto, del resto si tratta di un dibattito sofisticato, non semplice da avviare in un’epoca in cui tutto sembra ridursi a scontri ideologici, vedi qualche anno fa le polemiche intorno al caso Stamina. Sicuramente in Italia ci sono le capacità e le intelligenze per avviare questo tipo di riflessione, quello che risulta molto più difficile è portarle su un piano nazionale: i meccanismi del dibattito pubblico sono molto distorti e paradossalmente l’esplosione dei social network non aiutano a correggerli, anzi”.
Quali rischi comporta un’innovazione portata avanti da eccellenze isolate, senza un’informazione e una discussione che coinvolgano un pubblico ampio?
“Vedo due tipi di rischi. A quello che le nuove tecnologie possano danneggiarci, sempre citato, affiancherei come molto più incombente quello per cui la ricerca non approda poi a benefici reali per la società, non si trasforma cioè in innovazione – prodotti, farmaci - sul mercato oppure quello di una ricerca che produca risultati, ma per aziende non italiane. Il rischio insomma è quello di essere solo consumatori, e non protagonisti,dell’innovazione. Dobbiamo allora riuscire a essere attrattivi, elemento fondamentale per la competitività di un Paese. Milano è stata anche di recente descritta come la capitale italiana dell’innovazione, ma non basta: anche per chi è già ai vertici ci deve essere la voglia di giocarsela con le capitali mondiali dell’innovazione. Invece purtroppo oggi il capoluogo lombardo entra a fatica nelle prime venti posizioni europee e mondiali: credo che meriterebbe di più. Con Expo sono stati fatti passi da gigante ma c’è ancora molto da fare, ad esempio sul fronte del mercato immobiliare: molti stranieri mi dicono quanto ai loro occhi sia ancora poco trasparente e quanto questo renda difficile gli investimenti. Le energie necessarie ci sono, bisogna creare un ecosistema in cui farle fiorire”.
Senza un confronto costante si rischia anche un divario tra cittadinanza e attori dell’innovazione?
“Questo è un tema ancora più complesso. Per sanare la ‘morte’ della figura dell’esperto e la detronizzazione della classe dirigente tradizionale non bastano degli organismi consultivi, che pure vanno nella giusta direzione. Occorre riconoscere che la nostra società è attraversata da una profonda frattura. C’è chi la fa risalire a una controcultura, diventata di massa perdendo la propria specificità ma non il rifiuto complessivo e a priori di istituzioni e ‘poteri’ consolidati: ed ecco il rifiuto dei vaccini che ‘non servono e sono pure dannosi’, un vero controsenso storico. Per parafrasare un’espressione di Trump, si è affermato un diritto ai propri ‘fatti’ e non solo alle proprie opinioni ed è qualcosa di difficile da sradicare, qualcosa con cui dovremo convivere a lungo. Organismi consultivi come il Foro lombardo, il dialogo delle istituzioni con i cittadini non possono essere la cura definitiva a questa frattura: certi processi culturali a livello sociale ci mettono decenni a svilupparsi e hanno strascichi lunghissimi. Ma possono essere una terapia, dunque cominciano con il creare esperienze che vadano nella giusta direzione”.