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Foro regionale

09/04/2018

“La medicina di precisione non è solo genomica, ma investimenti su SSN e formazione”

Francesco Lescai, docente di Genetica Umana e Bioinformatica, ora nel Foro per l’innovazione

Redazione Open Innovation

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La complessità della sfida aperta dalla medicina di precisione, la partecipazione dei cittadini come elemento fondamentale della sua governance, l’originalità e le potenzialità del nuovo Foro lombardo per l’innovazione e la ricerca. Di questo ci parla Francesco Lescai, professore associato in Genetica Umana e Bioinformatica presso la Danese Aarhus University e neo membro del Foro. All’attività scientifica e didattica Lescai affianca quella di comunicazione della scienza e di RRI, Responsible Research and Innovation. Coordinatore del progetto europeo SMART-map (Horizon2020) per l’integrazione della RRI nel contesto industriale dei settori di Precision Medicine, Biologia Sintetica e 3D Printing in Biomedicina,Lescai è anche presidente del Collegio dei Probiviri dell’Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani, ruolo che lo ha portato a confrontarsi con diverse realtà internazionali sugli aspetti etici e deontologici dell’impatto delle biotecnologie.

Professor Lescai, lei è un pioniere della bioinformatica: qual è stata la sua formazione?

“Mi sono laureato in Biotecnologie Mediche a Bologna con il professor Claudio Franceschi. I miei studi si sono concentrati sull’invecchiamento, e il mio interesse principale sono sempre state le neuroscienze. La mia tesi verteva in particolare sul ruolo dell’infiammazione nello sviluppo dell’Alzheimer. Una risposta fisiologica, l’infiammazione, alla base di molte malattie, e che rappresenta anche un ponte con un’altra area su cui oggi c’è grande attenzione: quello che mangiamo, grazie al ruolo del microbiota nel sistema digerente. Temi che insieme alla genomica sono alla base della medicina di precisione. La mia fortuna è stata lavorarci fin da studente. La mia tesi di dottorato, nel 2005, prevedeva l’analisi ad alta risoluzione di una porzione di cromosoma in oltre duemila persone con quelle che erano le prime tecnologie di caratterizzazione genetica ad alto potenziale: può apparire un numero minimo di soggetti rispetto alle possibilità attuali, ma allora il mio rappresentava uno dei primi lavori su così tante persone e tante varianti genetiche. In ogni caso mi sono confrontato fin dall’inizio con il nodo dell’analisi e della conservazione dei dati, e queste sono le sfide principali che ritroviamo oggi. Così è iniziato il mio percorso verso genomica e bioinformatica, un binomio che oggi appare indissolubile: il vero problema infatti non è più il sequenziamento del genoma, ma il modo in cui si analizza e si gestisce l’enorme mole di dati ottenuti, dei Big Data. Dopo la laurea mi sono spostato a Londra, proprio nell’anno in cui esplodevano le nuove tecnologie per il sequenziamento del genoma e pochissimi al mondo possedevano strumenti per analizzare grandi quantità di dati ottenuti in questo modo. Sono stato assunto alla UCL - University College of London, allora la quarta università nel ranking mondiale, con il compito di mettere in piedi da zero il sistema di analisi delle sequenze di genoma umano fatte a livello di campus. Per me ha rappresentato una grande opportunità di confronto su tutte le principali sfide poste da questa analisi: pochissimi, ad esempio, sapevano come usare i grandi cluster di computer, fino ad allora appannaggio di fisici e matematici, per quel nuovo tipo di calcoli. Ho avuto insomma la possibilità di vivere questa rivoluzione dall’interno e di contribuire con delle idee al modo in cui queste sequenze vengono analizzate. E posso dire di avere visto anche gli albori della medicina di precisione, quando non veniva ancora chiamata così. Nel campus infatti sono diventato responsabile della bioinformatica per il Centro di Genomica Translazionale, affiliato con il più grande ospedale pediatrico d’Europa, il Great Ormond Street Hospital: in questo centro avevamo il compito di ricorrere all’analisi di sequenze genomiche per aiutare i medici nei casi di malattie rare, difficili da diagnosticare. In seguito sono stato chiamato da un nuovo e grande consorzio Danese per le malattie psichiatriche: cercavano qualcuno che analizzasse i dati raccolti in questo ambito. Così sono arrivato ad Aarhus, ormai cinque anni fa”.

Nella sua esperienza, su che basi poggia lo sviluppo della medicina di precisione?

“Porto l’esempio della Gran Bretagna, nazione che vanta la maggiore esperienza e i maggiori investimenti nel settore. Qui si trovano casi di applicazione concreta della genomica all’interno del sistema sanitario nazionale. Un punto niente affatto banale: quando si parla di medicina di precisione, ovvero di diagnosi più precise e di terapie mirate grazie alle informazioni della genetica, si tende a immaginare che la maggior parte degli investimenti siano assorbiti dal costo del sequenziamento del genoma; al contrario, le spese si concentrano soprattutto sui cambiamenti necessari al sistema per recepire la novità. Tutte le procedure sanitarie devono essere riviste per tenere conto dei dati genomici: occorre formare i medici già assunti, gli infermieri, capire come calcolare i prezzi delle nuove prestazioni… per fare tutto questo servono fondi consistenti. Venendo all’affermazione della medicina di precisione, uno degli elementi fondamentali alla base della sua nascita è che la medicina attuale non è per nulla precisa. Se guardiamo all’effetto di molti farmaci, perfino dei blockbuster, ovvero i più utilizzati, questi hanno una reale efficacia su di un numero molto limitato di pazienti, anche meno del 20% a seconda del tipo di farmaco. Un esempio concreto? Ad Aarhus mi sono occupato di schizofrenia e uno dei blockbuster più importanti per questa patologia usa la molecola dell’aripiprazolo: ebbene, è efficace solo in un paziente ogni 5. Questa situazione va superata. Per medicina di precisione intendiamo allora anzitutto una diagnosi più precisa ottenuta incrociando dati diversi forniti dalla genomica, dalla metabolomica, dagli stili di vita grazie anche alle wearable technologies, che permettono di integrare le cartelle cliniche con dati raccolti tutti i giorni da ciascuno di noi. In secondo luogo, la medicina di precisione prevede lo sviluppo di farmaci e trattamenti più mirati, ovvero categorizzati per gruppi di pazienti, in modo da fornire la medicina giusta al gruppo giusto: non si tratta solo di mettere a punto un farmaco mirato ma di portarlo al paziente a cui è più adatto. Come terzo elemento, questo nuovo approccio alla medicina punta alla precisione dei risultati, disegnando il trattamento sanitario a partire dalla reale efficacia delle terapie. In questo processo insomma la genomica, anche se fondamentale, rappresenta solo uno dei molti aspetti da tenere in considerazione: è un punto cruciale da capire. Quando si tratta di investire nella medicina di precisione è bene sapere che occorre farlo su tutti questi fronti. Le prime patologie a cui si è applicata la medicina di precisione sono le malattie rare e i tumori, oggi riesce a fare la differenza anche per alcune malattie mentali, sia sul piano diagnostico sia su quello terapeutico”.

Dunque la medicina di precisione rischia di non dare i risultati sperati, se non si adegua l’intero sistema sanitario?

“Il rischio c’è. Faccio un altro esempio. Ho potuto lavorare in entrambe le grandi aree della genomica: quella dei dati su ampia scala – la mia ultima ricerca sulla schizofrenia includeva dati sulle sequenze genomiche di oltre 20 mila persone - come quella centrata sui dati di un singolo individuo. Il punto fondamentale è che l’interpretazione del singolo genoma è possibile solo nel confronto con i dati di molti altri individui, senza i quali il primo rimane come privo di significato. Questo significa che la genomica per essere efficace deve avere accesso a database condivisibili, in cui siano registrati i dati genomici di moltissime persone. Agli studenti cito sempre un caso che abbiamo avuto all’ospedale pediatrico a Londra: un bimbo presentava una sindrome da immunodeficienza acquisita, che però non corrispondeva a nessuna di quelle che conoscevamo. L’analisi del genoma ci aveva permesso di individuare una mutazione in un gene teoricamente responsabile di nanismo, dovuto a displasia scheletrica. Confrontandola con database specifici, abbiamo trovato però tre casi in tutto il mondo in cui per quella mutazione – in apparenza del tutto scollegata dall’immunodeficienza acquisita – era riportata soltanto un’immunodeficienza, invece della displasia, proprio come nel nostro caso: senza un’analisi genetica e soprattutto senza l’accesso ai database non l’avremmo mai scoperto e quella famiglia non avrebbe mai avuto una diagnosi. E qui sta il grande e attualissimo interrogativo: tutti riconoscono la necessità di questi database ma crearli pone problemi oggettivi di privacy, di sicurezza dei dati, di chi condivide cosa. Sono allora gli Stati e le istituzioni del mondo della ricerca ad avere la responsabilità di agire su questo fronte. C’è chi si è già mosso: a gennaio il Ministero della Salute inglese ha dichiarato che aprirà il proprio database ai Paesi che vorranno sottoscrivere un accordo di condivisione reciproca dei dati”.

Quanto pesa, sul consenso informato dei cittadini, il timore che questi dati possano essere usati per scopi commerciali?

A febbraio 2016 la fondazione Wellcome Trust ha pubblicato in Gran Bretagna un’indagine sull’atteggiamento del pubblico inglese nei confronti dell’accesso commerciale ai dati sanitari, con risultati estremamente interessanti: non c’è stata una contrarietà a priori all’accesso da parte delle aziende, e quello che lo rendeva accettabile era un chiaro beneficio pubblico. Il problema per i cittadini non era dunque chi accedeva ai loro dati ma la ‘mission’ con cui lo si faceva, se cioè la cessione dei dati veniva ripagata con un ritorno di qualsiasi tipo, e bene identificato, per la sfera pubblica. Poi ovviamente i cittadini ponevano anche delle condizioni, come quella di ridurre al minimo la possibilità di individuare le informazioni personali, separando il dato anagrafico da quello genetico”.

Quali Paesi stanno investendo di più su questo fronte? A che punto è Italia?

“I primi a partire sono stati Inghilterra e Canada nel 2012, gli Usa lo hanno fatto nel 2015 con la “Precision Medicine Initiative” di Obama; dopo l’annuncio americano si è mossa anche la Cina. In Europa si sono attivate Francia, Germania, Belgio, Finlandia, Estonia, e Danimarca; la Spagna sta discutendo proprio ora una strategia nazionale di Precision Medicine. Si è poi costituito anche il consorzio ICPerMed, che però a oggi rappresenta un’entità di coordinamento e per ora non eroga finanziamenti di ricerca: i grandi budget europei vengono dai bandi IMI (Innovative Medicine Initiative) e IMI 2, dove ci sono 3 miliardi di euro fino al 2024, anche se non specificamente per la PM. In ogni caso, poiché nell’Unione Europea i sistemi sanitari non sono integrati, è inevitabile che le iniziative su questo tema siano prese a livello nazionale. Occorre allora una pianificazione almeno a questo livello. Le scelte della Francia ad esempio, che sta attuando la propria strategia nazionale, il “Plan Médicine France Génomique 2025”, sono interessanti: prevede tre fasi, con l’apertura di grandi centri per il sequenziamento, di centri dedicati all’analisi dei dati e infine una fase di raccordo di questi centri con il sistema sanitario nazionale. Una pianificazione di questa scala in Italia però non si è ancora vista. La legge di Stabilità 2016 prevedeva 5 milioni di euro l’anno fino al 2018 per il “progetto Genomi Italia”: una cifra microscopica vista dall’estero, se pensiamo che la Gran Bretagna ha investito nel complesso 600 milioni di sterline, gli Usa 215 milioni di dollari solo nel 2016, la Cina ha messo 9,2 miliardi di dollari in tre programmi quinquennali e il Canada in cinque anni ha investito 200 milioni di dollari. Sono costi relativi soprattutto alla parte infrastrutturale e non solo al sequenziamento, dato che ormai è possibile sequenziare un genoma con una spesa inferiore ai mille euro. Riassumendo: senza un progetto e degli investimenti per le infrastrutture, per formare il personale, per informare la popolazione non può esserci una medicina di precisione. La partecipazione e il coinvolgimento di tutti noi sono fondamentali perché si raggiunga l’obiettivo”.

In questo quadro, che contributo può arrivare da un organismo inedito come il Foro lombardo per la ricerca e l’innovazione? Pensa sia un modello esportabile in altre regioni?

“Intanto rilevo che l’iniziativa del Foro è estremante originale anche a livello mondiale, e non solo nazionale dove è praticamente rivoluzionaria: pochissime istituzioni si sono date strumenti di governance di questo tipo. Per quel che riguarda la PM, mi sembra molto importante che il Foro sia centrato sul tema della RRI (Responsible Research and Innovation), perché la medicina di precisione non è solo fatta di competenze scientifiche, ma necessita anche di un diverso approccio di governance. Il coinvolgimento della popolazione e la gestione multi-stakeholder delle innovazioni tecnologiche, scientifiche e istituzionali sono fondamentali. Credo dunque che il Foro possa assolvere proprio questo ruolo, ovvero assicurare che la governance dell’innovazione sia parte di un sistema in cui sono rappresentate tutte le voci degli stakeholder, in cui i problemi non sono visti solo da un punto di vista tecnico, o sociale, o economico ma in cui tutti questi aspetti risultano integrati nella pianificazione e nell’esecuzione dell’innovazione tecnologica a livello regionale. E certo si tratta di un modello esportabile: potrebbe venire portato all’interno del ICPerMed, come esempio di governance per i livelli locali”.

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