L’informazione sul coronavirus sui social media è diventata virale. E come tale va gestita, soprattutto da parte delle istituzioni sanitarie che devono - a differenza di quanto successo finora - riuscire a governare il fenomeno, invece che subirlo. Nicoletta Corrocher, docente di Economia dell’Innovazione alla Bocconi di Milano, nel video proposto con la sua università cita come emblematici alcuni contenuti che hanno fatto il giro dei social media: le penne lisce lasciate sugli scaffali svuotati dei supermercati presi d’assalto; il decalogo del Ministero della Salute; il video sulla Milano che non si ferma.
Professoressa, lei ha citato l’OMS, per cui quella del coronavirus è anche la prima ‘infodemia’ affrontata: cosa significa?
“Che le informazioni sulla malattia si sono diffuse in modo altrettanto virale, con una ‘contagiosità’ che davvero ricorda quella del virus stesso. Le persone hanno avuto un accesso immediato e aperto a ogni tipo d’informazione. E questo ha avuto effetti diversi. Alcuni benefici, grazie anche all’uso di registri diversi: nei casi che cito nel video abbiamo l’ironia, un’informazione istituzionale che ci permette di prendere decisioni sulla base di alcuni punti fermi, una comunicazione sociale. Abbiamo però visto anche gli effetti negativi, con il dilagare di alcune fake news. Non necessariamente ‘dolose’, ovvero non prodotte in modo consapevole come pure è avvenuto in tempi recenti (penso alle scorse elezioni negli USA), ma comunque dannose. Di fatto, il problema delle fake news che dilagano sui social media - ma non solo lì, è bene ricordarlo - in questo caso si è ingigantito. A monte c’è il tema delle competenze specifiche che si dovrebbero avere per parlare di certi temi. Quando si tratta di salute però ognuno di noi si sente toccato, e quindi autorizzato a intervenire. Ed ecco che si diffondono voci incontrollate, o pregiudizi, che non aiutano ad affrontare situazioni di emergenza o comunque nuove come quella che stiamo vivendo”.
Ancora una volta dunque dobbiamo affrontare il nodo delle fake news: ma come?
“Anche in questo caso, mi sembra che non si possa fare di ogni erba un fascio. La soluzione insomma non può essere quella di limitare la circolazione delle informazioni, ma si deve intervenire sulla qualità dei contenuti. Su questo fronte, personalmente non credo che si debba delegare ai gestori delle piattaforme digitali il controllo di tale qualità. Significherebbe dare loro un potere enorme: chi stabilisce cosa è fake news o cosa no? Piuttosto, sono le istituzioni a dover intervenire, portando sui social informazioni corrette”.
Sul coronavirus, il Ministero della Salute aveva stretto un accordo con Twitter e Facebook perché rimandassero al sito istituzionale. Ma quando l’epidemia è arrivata in Italia, non sono stati molti i contenuti delle istituzioni sanitarie ‘dilagati’ sui social…
“Qui sta il nodo. Le istituzioni, in questo caso quelle sanitarie e quelle politiche in particolare, devono imparare a stare di più e meglio sui social media. Che ci piaccia o meno è qui che la maggior parte delle persone oggi si informa. E invece, chi ha visto i post dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità)? O quelli dell’Istituto Superiore di Sanità? Addirittura, a volte ci siamo trovati di fronte all’assenza di propri profili social, anche se Twitter e soprattutto Facebook sono piattaforme che esistono da molti anni. Oltretutto, è chiaro che non ci si può limitare a rispondere a una fake news con una good news: la prima ha una forza molto maggiore. La questione dunque va affrontata a monte”.
“Un’educazione digitale dovrebbe essere parte strutturale dei programmi di studio, almeno dalle scuole medie inferiori”.
Come si ribalta dunque questa situazione?
“Come docente di Economia dell’Innovazione mi sono occupata della diffusione di nuove tecnologie, in particolare quelle ICT, e della loro sostenibilità in ambiti diversi, studiandone le dinamiche e le ricadute economiche e sociali. Sono sempre più convinta che in Italia serva una grande azione di alfabetizzazione digitale su ampia scala. Questa è la prima azione necessaria. La seconda, come dicevo, è che le istituzioni cavalchino l’onda dei social media, invece che esserne travolti. Ma perché succeda servono investimenti. Anche in personale qualificato, che all’interno delle istituzioni sappia utilizzare al meglio i social media. Altrimenti finiranno con il lasciarle sfruttare dei ‘generatori’ di fake news: eventualità sempre più frequente, anche perché dietro ci sono incentivi economici specifici e la possibilità di creare un gran numero di fake news a bassissimo costo”.
In definitiva, come dovrebbero muoversi le istituzioni davanti a novità come quella creata dal Covid-19?
“Devono smettere di trattare i media digitali e i social network in particolare come la ‘Cenerentola dell’informazione’: non basta delegare il compito fondamentale di fornire informazioni corrette, ma anche di largo impatto, a un singolo scienziato che è molto presente sui social media. Quindi si devono creare engagement a partire da contenuti propri, ricchi di video e infografiche, chiare e di facile lettura. Utilizzare toni positivi. Per tutto questo però, lo ripeto, servono investimenti. E vanno fatti ora, prima di dover fronteggiare una nuova emergenza: perché quando questa esplode, come abbiamo visto, non c’è tempo di adeguarsi ‘in corsa’”.
Lei invoca anche un piano nazionale di alfabetizzazione digitale: cosa dovrebbe prevedere?
“Intanto direi che ancora prima abbiamo un problema di alfabetizzazione generale: saper distinguere le fonti di notizie autorevoli e affidabili da quelle che non lo sono è un tema che si pone ormai anche off line. Mi chiedo come si possa ancora postare qualcosa con la classica premessa ‘non so se sia vero, ma intanto condivido’: ognuno di noi deve prestare maggiore attenzione alle informazioni che diffonde. Per quel che riguarda le competenze digitali, penso sia arrivato il momento di costruirle in ambito scolastico. E non solo con qualche corso, come si è fatto ad esempio per affrontare una questione molto sentita come il crescente Cyberbullismo. Per saper ‘abitare’ gli spazi digitali occorre sviluppare competenze trasversali e a lungo termine: un’educazione digitale dovrebbe ormai essere parte strutturale dei programmi di studio, se non già alle elementari di sicuro a partire dalle scuole medie inferiori. Quando si parla di agenda digitale dunque, ben venga la diffusione della banda larga, ma è anche di questo nodo che il sistema deve farsi carico. Solo così potremo davvero formare i cittadini digitali di domani”.