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Premio Lombardia è Ricerca

31/10/2019

Frisoni: “Ricerca sulle demenze sotto finanziata, bene il Premio lombardo”

Intervista al capo della Memory Clinic di Ginevra e giurato per Regione

Redazione Open Innovation

Redazione Open Innovation

Regione Lombardia

Le demenze hanno costi sociali doppi rispetto a quelli legati al cancro, ma la ricerca su queste malattie del sistema nervoso riceve molti meno fondi.

È uno dei punti su cui invita a riflettere Giovanni Frisoni, Ordinario di Neuroscienze cliniche all’Università di Ginevra in Svizzera e a capo della Memory Clinic dell’ospedale universitario nella stessa città. Frisoni è uno dei giurati del Premio “Lombardia è Ricerca” promosso da Regione Lombardia, che verrà consegnato come ogni anno l’8 novembre alla Scala (l’edizione 2019 è stata assegnata al biologo molecolare Guido Kroemer, per la scoperta dei benefici della restrizione calorica per la longevità delle cellule: leggi di più qui).

Già Direttore Scientifico del Centro nazionale Alzheimer di Brescia, autore di oltre 500 articoli scientifici elencati in PubMed, insignito dell’Investigator Award di European Accademia di Neurologia nel 2016, Frisoni guida un team di dieci scienziati a Ginevra e uno di 25 in Italia. Con lui, che negli anni ha attratto fondi per circa 30 milioni di euro per la ricerca competitiva, abbiamo parlato del nodo dei costi nel trattamento dei pazienti con Alzheimer e negli studi per dare nuove risposte a “un enorme problema sociale”.

“Il paziente con Alzheimer è spesso aggressivo non perché la demenza lo renda tale, ma perché i suoi familiari non sanno, giustamente, come relazionarsi a lui, che parole e che gesti usare: da qui parte l’approccio psicosociale alla malatitia”.

Anzitutto, professore, di cosa si occupa una Clinica della memoria?
“Operiamo a partire da due ‘pilastri’ fondamentali, il primo guarda all’oggi e il secondo al domani. Il primo presupposto è che i pazienti che hanno disturbi di memoria e anche sintomi di demenza conclamata possono migliorare significativamente le loro condizioni di vita. Il secondo, ancora più importante, è che le demenze si possono prevenire, sviluppando programmi come quelli che ad esempio sono pratica comune per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Un approccio che stiamo sviluppando con alcune cliniche della memoria europee”.

 

Partiamo dall’oggi: come si può migliorare qualità della vita di questi pazienti?
“Ci sono diversi assi di intervento: uno di tipo farmacologico e uno di tipo psicosociale. Il primo poggia su quattro farmaci, riconosciuti come efficaci in pazienti con Alzheimer, si quali c’è stata anche una recente polemica scatenata dalla decisione del Ministero della Salute francese di non rimborsarli più a causa della presunta inefficacia e tossicità: una scelta che la comunità medica e scientifica internazionale giudica come un obbrobrio clinico e scientifico”.

… Un caso dunque in cui politica e scienza hanno sostenuto tesi molto diverse, come mai a suo giudizio?
“Credo che questa decisione dia voce a una frustrazione di ampi segmenti della società, peraltro comprensibile rispetto ai bisogni di questi pazienti e alle risposte che noi medici siamo in grado di dare, che attualmente sono insoddisfacenti. Ma credo anche che il modo in cui è stata data voce a questa frustrazione sia inaccettabile da parte di un’istituzione di un Paese avanzato. Certo, a monte ci sono appunto un problema clinico e uno sociale enormi. E intanto la ricerca scientifica a volte illude i cittadini con informazioni fuorvianti, che poi generano delusione. Ecco perché dico che se si ottiene un risultato positivo nei testi su animali questo deve essere chiaro nella comunicazione ai non specialisti, visto che su cento molecole che funzionano nell’animale una sola funziona nell’uomo”.

Torniamo all’approccio farmacologico e a quello psicosociale: come funzionano?
“Il primo punta a trattare le demenze con alcuni farmaci, perché come sappiamo i pazienti con questi problemi sono spesso anche depressi, ansiosi, aggressivi. Ma punta anche a non somministrarne altri: è bene sapere infatti che ci sono farmaci che per il paziente anziano con demenza sono estremamente tossici, e che pure vengono loro prescritti abbastanza spesso per farlo stare calmo, quando invece per ottenere tale risultato bisognerebbe fare tutt’altro.
E qui vengo all’altro approccio. Il paziente con Alzheimer è spesso aggressivo non perché la demenza lo renda tale, ma perché i suoi familiari non sanno, giustamente, come relazionarsi a lui, che parole e che gesti usare, e finiscono con il provocare reazioni aggressive”.

 

“In Svizzera i fondi per la ricerca sono maggiori dal pubblico ma soprattutto dai privati, a cui il governo garantisce detrazioni fiscali. Se si vogliono risultati occorre investire”

 

Ma i medici di base - che hanno sempre più pazienti anziani, e dunque a rischio maggiore di demenza - sono consapevoli e preparati su questo fronte?
“La sensibilità sul tema si sta diffondendo ed è certo già molto più alta di trent’anni fa, quando si è cominciato a prestare maggiore attenzione a questi pazienti. Il problema vero è legato piuttosto ai costi. Mentre quella per i farmaci è sostenibile, la spesa per l’approccio psicosociale è molto elevata: in una clinica della memoria di taglia medio-grande, servirebbero infatti almeno due persone formate e impiegate a tempo pieno per educare i familiari dei pazienti con demenza, e parliamo 10-20 sedute da un’ora ciascuna, che difficilmente vengono rimborsate dalla sanità pubblica.
Eppure si tratta di pazienti anziani e con demenza, dunque dei più fragili tra i fragili i quali senza un intervento pubblico rischiano di non poter accedere a questo tipo di terapia. Anche per questo motivo allora è importante insistere sulla prevenzione. Anche tenendo conto del fatto che oggi i malati con Alzheimer vivono molto più a lungo: se trent’anni fa l’aspettativa di vita era di 8-10 anni ora è arrivata a 10-15”.

Veniamo dunque alla prevenzione: quali sono gli scenari aperti?
“È di pochi giorni fa la notizia del ‘recupero’ di un farmaco prima accantonato, l’‘aducanumab’ (sviluppato a partire da un anticorpo specifico contro la proteina ‘beta-amiloide’, ritenuta responsabile dell’insorgere dell’Alzheimer ndr) che permetterebbe una prevenzione secondaria. Ovvero, ed è quello a cui stiamo lavorando in questi anni, di trattare anche chi non presenta ancora sintomi di demenza ma solo una presenza della proteina amiloide. Come del resto si fa con i pazienti che soffrono di ipertensione, senza aspettare lo sviluppo di un ictus”.

La ricerca insomma è determinante. Quanto conta il sostegno pubblico su questo fronte?
“Intanto devo dire che la situazione in Svizzera, dove lavoro, è molto diversa da quella italiana. Qui i fondi pubblici sono molto più alti per tutti i tipi di ricerca, ma soprattutto ci sono molti fondi da privati, perché il governo garantisce detrazioni fiscali a chi dona parte del proprio patrimonio alla ricerca, In Italia invece i fondi pubblici sono risicati e i donatori rarissimi, perché mancano incentivi. È vero che quando i soldi sono utilizzati bene anche con pochi fondi si possono fare miracoli, ma la ricerca è un lavoro come un altro: se si vogliono risultati vanno pagati e occorre investire.

In cifre: in tutto il mondo la ricerca sulle demenze riceve un decimo dei fondi pubblici rispetto a quella sul cancro, anche se i costi sociali di queste patologie ammontano al doppio di quelli relativi ai tumori.

In questo contesto, allora, il Premio ‘Lombardia è Ricerca’ di Regione Lombardia dà un segnale forte di commitment da parte delle istituzioni e di interesse verso la ricerca scientifica in generale e sull’Ageing in particolare, contribuendo a portare l’attenzione dei cittadini verso un ambito della ricerca medica che è a oggi sotto finanziato”.

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